Un perito per accertare la verità sull’incidente di Roma

È scontro sulle ricostruzioni delle dinamiche in cui sono morte Camilla e Gaia. La famiglia Romagnoli è pronta a dar battaglia.

Un’indagine difensiva per ottenere «una ricostruzione scientifica dell’incidente» in cui sono morte Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, le due 16enni travolte e uccise a Roma dopo essere state investite in Corso Francia. Si annuncia una battaglia a colpi di perizie nella vicenda giudiziaria che vede ai domiciliari il ventenne Pietro Genovese: i legali della famiglia Romagnoli riferiscono di una serie di indagini difensive per fare chiarezza su quanto accaduto. «È agli esclusivi fini dell’accertamento pieno della verità. Abbiamo anche contattato uno dei periti italiani più prestigiosi nella ricostruzione scientifica degli eventi complessi e drammatici», spiega l’avvocato Cesare Piraino. Il tutto in attesa dell’interrogatorio di garanzia di Genovese, fissato il 2 gennaio 2020.

LE VERSIONI CONTRASTANTI DEI TESTIMONI

Negli giorni successivi all’incidente si erano susseguite una serie di versioni contrastati da parte di alcuni testimoni. Nell’interrogatorio svolto nell’immediatezza dei fatti, Genovese, ancora in stato di choc, aveva affermato di non avere visto le due 16enni attraversare la strada. Ma è la stessa ordinanza del gip a citare una serie di testimoni secondo i quali la velocità dell’auto guidata da Genovese, a bordo della quale c’erano due passeggeri, «era sostenuta», superiore ai 50 chilometri orari. Secondo un uomo che ha assistito alla scena «l’impatto è stato inevitabile e violentissimo. La prima ragazza è stata colpita in pieno. Ho visto una gamba o un braccio volare in aria». E uno studente amico di Genovese a bordo con lui sul Suv racconta che «quelle due ragazze sono sbucate all’improvviso, correvano mano nella mano. Era impossibile evitarle. Pioveva, era buio, ma ricordo perfettamente cos’è successo: ho visto due sagome apparire dal nulla e poi il corpo di una di loro rimbalzare sopra il cofano». Nel frattempo l’avvocato Piraino ha rigettato alcune ipotesi che erano emerse nelle ultime ore su alcuni quotidiani: «È falso che il gruppo degli amici di Camilla avesse l’abitudine di svolgere quel fantomatico gioco del semaforo rosso di cui qualcuno ha parlato».

IL PROGETTO DI ISTALLARE DEGLI AUTOVELOX IN CORSO FRANCIA

In quella zona la polizia locale ha comunque intensificato i controlli, che saranno ulteriormente sensibilizzati in tutte le zone della movida maggiormente frequentate e sulle strade ad alto scorrimento di Roma. E a inizio gennaio potrebbero essere installati, proprio nella zona di Corso Francia, degli autovelox portatili. I dispositivi fissi di controllo della velocità, invece, non sembrerebbe possibili per assenza di requisiti di legge in quel tratto di strada.

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Perché l’incidente di Gaia e Camilla deve farci riflettere sulle nostre abitudini

Attraversare col rosso non è colpa del caso, però l'abbiamo fatto tutti e continuiamo a farlo. Perché è una piccola sfida. In alcuni casi un rito di passaggio.

Cecilia, un’amica delle due ragazze romane morte mentre attraversavano col semaforo rosso il punto “cieco” di corso Francia, Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli, ha raccontato a Repubblica che attraversare «a quel modo» è quasi un’abitudine e che lo fanno in tanti. «Pensi sempre: ce la farò». Farcela proprio lì è abbastanza un miracolo, e lo sa chiunque abbia percorso almeno una volta quella strada a veloce scorrimento che – non lo scriviamo per difendere Pietro Genovese, l’investitore – quasi nessuno in questo nostro Paese dove non si rispettano nemmeno le sentenze del Consiglio di Stato, percorre entro i limiti di velocità. Se Genovese avesse guidato entro i 50 chilometri orari previsti, forse sarebbe riuscito a frenare efficacemente. A 70, inchiodare è stato impossibile. Anzi, inutile. Dunque, eccoci a piangere le due ragazze imprudenti, ma anche Pietro, che paga anche per il padre famoso (è figlio del regista Paolo), purtroppo, sempre per via di questo nostro Paese a contrariis dove soldi e fama, anche di riflesso, sono un’aggravante a prescindere.

SPINTI DAL GUSTO DELLA SFIDA

Non ci è piaciuto il parroco della chiesa del Preziosissimo Sangue che nella sua omelia si è scagliato con violenza inaudita (e lessico da tv del pomeriggio) contro il guidatore come se le due vittime non fossero state, ahinoi, agenti primari di quanto è successo. E non ci piacciamo nemmeno noi stesse, vogliamo dirlo, quando, per non perdere l’unico taxi posteggiato a Chiesa Nuova, per saltarci sopra al volo, attraversiamo corso Vittorio Emanuele a cinquanta metri dal semaforo che ci garantirebbe un passaggio ipoteticamente tranquillo e protetto. Di sicuro, quel corso in centro città non è pericoloso come corso Francia, non è una strada a veloce scorrimento. Però ha tre corsie, due sensi di marcia, ci passano autobus e mostruosi car di pellegrini alti cinque metri che impediscono la visuale di chi li affianca o li segue. Nel 2018, una ragazzina che attraversava nell’esatto punto dove noi cerchiamo di compiere il salto fino al parcheggio dei taxi è stata investita e schiacciata. Dunque? Dunque ci limitiamo a percorrere i famosi cinquanta metri fino al semaforo solo in caso di pioggia o quando c’è buio pesto, meglio se in combinato disposto. Se appena intravvediamo una possibilità di farla franca, via. Quei 40 secondi in più ci paiono l’eternità, pure quando l’alternativa è l’eternità vera e propria. Abbiamo fretta? Anche, ma non solo. A guidarci verso il (possibile) disastro è il gusto della sfida, e anche un malcelato senso di onnipotenza e di invincibilità. Che sì, si può dominare con il tempo e con l’esperienza, ma che è connaturato allo spirito umano. La sfida al destino, l’autodeterminazione oltre ogni ragione, il misurarsi contro l’eterno e l’ignoto, saggiando le proprie forze.

UN RITO DI PASSAGGIO?

Nei giorni successivi all’incidente, gli stessi compagni delle due ragazze investite da Pietro Genovese hanno parlato di roulette russa. Lo hanno fatto anche i colleghi: lo facciamo per abitudine, perché il luogo comune è comodo, ma anche perché è la verità: attraversare col semaforo rosso in un punto potenzialmente mortale ha molto da spartire con il gioco, meglio se a esito potenzialmente mortale, con le sfide estreme. Leggete i testi di chi ha descritto quell’eccitazione, quella scarica di adrenalina, quel gioco a rimpiattino con la morte, e capirete benissimo perché quanto è accaduto a Gaia e Camilla forse (non) potrebbe più succedere a noi perché abbiamo imparato a scendere a patti con il nostro super io e a non sfidare troppo la nostra buona stella – si chiama senso di responsabilità e maturità – ma che il motivo per cui continuiamo a scrivere e a parlare di questo caso, a qualunque età, è perché sappiamo che il patto concluso con noi stessi non è proprio definitivo, e neanche strettissimo. Gaia e Camilla attraversavano nel «punto maledetto» perché farlo equivaleva, probabilmente, a uno dei tanti riti di passaggio che la nostra società evoluta e contemporanea ha eliminato, lasciandoli alle cosiddette “culture tribali” o “tradizionali”, ma davvero tutti noi cinquantenni o sessantenni rispettiamo fino in fondo, fino all’ultimo centimetro, il codice della strada? Facciamo i cinquanta, cento metri in più e aspettiamo diligenti il semaforo verde? E quando siamo stati a New York non ci hanno detto che è meglio attraversare Park Avenue col semaforo rosso, pur stando bene attenti, perché la luce verde non è una garanzia? Sì, ci capiterà ancora di sgarrare, di metterci alla prova ancora una volta. Sperando che ci vada bene come dice Cecilia, l’amica di Camilla: «Pensi sempre: ce la farò».

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