Lavoro? Meglio gli Indiani metropolitani di questi politici

L'automazione offre spazi di liberazione. C'è chi li vede, come la premier finlandese. E chi già li immaginava, come il movimento bolognese degli Anni 70. Mentre la quasi totalità della nostra classe dirigente è incatenata a concezioni novecentesche.

«Mi sembra una bufala…ma in questo caso è una renna?». La battuta che non è granché, oggettivamente, è di un uomo solitamente molto serio.

Che però stavolta si è lasciato prendere dalla sindrome Twitter: una patologia che, solo che si disponga di un qualche migliaio di follower, colpisce tutti. Implacabilmente. 

Questa volta è Carlo Cottarelli a buttare in parodia l’idea della prima ministra finlandese Sanna Marin di riduzione significativa dell’orario di lavoro.

UNA NOTIZIA VECCHIA SPACCIATA PER NUOVA

La 34enne aveva infatti proposto, ma prima di diventare premier, di scendere a 24 ore settimanali con sei ore al giorno, per quattro giorni di lavoro. La tesi a supporto della sua proposta era che robotizzazione e digitalizzazione dei mezzi e processi produttivi consentono alle imprese margini di guadagni capaci di garantire lo stesso salario anche con orari ridotti.

Ma chiarito che l’idea della premier finlandese è stata venduta dai media europei come notizia fresca, quando in realtà, come già accennato, non lo era, aggiungeremo che però ha scatenato, soprattutto sui social, una tempesta mediale di grande intensità. Alimentata dai più disparati commenti, ma quasi tutti inclinanti come stile a quel misto di ironia e vaghezza che caratterizza il dibattito nazionale da quando si è cominciato a parlare di reddito di cittadinanza. E la “scomparsa del lavoro” è diventata occasione di bassa polemica politica nei confronti soprattutto del M5s e di reiterata affermazione, perlopiù di marca populista e sovranista, che bisogna «pagare la gente per lavorare e non per stare a casa a far niente». 

LA CRESCENTE AUTOMAZIONE E LA SCOMPARSA DEL LAVORO

Da noi infatti, a differenza di quanto avviene nel resto del mondo e nei Paesi più avanzati, il tema della scomparsa del lavoro per effetto della crescente automazione e delle applicazioni di intelligenza artificiale non è all’attenzione di governi o istituti di ricerca universitari e privati, di accademie e think tank. Siamo infatti nel pieno di un sommovimento epocale e di una profonda trasformazione del mercato mondiale del lavoro, che in questi anni hanno significato soprattutto perdita di posti e di addetti in ogni ambito dell’industria manifatturiera, che è quella tradizionale. E ancor oggi fondamentale, per quanto in grande affanno.

STRETTI TRA IL CAPITALISMO PARASSITARIO E DI SORVEGLIANZA

L’attuale modello di capitalismo, definito parassitario da Franklin Foer in World Without Mind. The Existential Threat Of Big Tech e di sorveglianza da Shoshana Zuboff in A human future in the Age of Surveillance, sta creando un mondo del lavoro sempre più precario, incerto, sottopagato e sfruttato che colpisce soprattutto i giovani: costretti a lavorare come affittacamere low cost per AirBnb, rider o autisti a partita Iva per Deliveroo o Uber, come web marketer o digital strategist a cottimo.

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Naturalmente c’è anche da ridere, ma non allegramente, quando in simile contesto s’avanza un ministro dello Sviluppo economico, all’epoca il grillino Luigi Di Maio ora passato alla Farnesina, che annuncia il varo della Start Up Nation. Ma specularmente non è meno triste la parte maggioritaria di Italia, oggi populista e sovranista, che con Fratelli d’Italia voleva indire un referendum contro l’introduzione della fatturazione elettronica, e ora con la Lega non vuole limiti ai pagamenti in contanti. La prossima Lotteria degli scontrini racconta invece un Paese e un governo, quello attuale, che si affidano alla fortuna per la lotta all’evasione fiscale.

VIVIAMO IN UN MIX DI IPERMODERNITÀ E ARCAISMO

Paradossalmente, tuttavia, questo mix di ipermodernità e arcaismo è in linea con la tendenza che vede ovunque avanzare un mondo sempre più popolato di macchine e robot, ma dal sapore ottocentesco, caratterizzato com’è da bassi salari, ricatti occupazionali e sfruttamento intensivo. E che soprattutto nell’Occidente sviluppato restituisce attualità al pensiero marxista, naturalmente adattato ai tempi nuovi. È il marxismo 3.0 che deve misurarsi con il nuovo sottoproletariato digitale, con l’esercito di riserva del web che, a differenza di quello otto/novecentesco, non ha più coscienza di esserlo.

VERSO UN MARXISMO 3.0

E qui ognuno di noi guardando al futuro può valutare se stia prevalendo chi, come John M. Keynes, nella lettera ai pronipoti scritta nel 1930, Economic Possibilities for Our Grandchildren, prevedeva che da lì a 100 anni le persone, grazie allo sviluppo tecnologico, avrebbero lavorato 3 ore al giorno, potendo dedicare il resto della giornata alla realizzazione di se stesse, o chi viceversa, come Karl Marx, scorgeva proprio nello sviluppo accelerato del macchinismo la causa di una superproduzione che avrebbe causato crescente disoccupazione e povertà per i lavoratori. Al momento, scrive Malcolm Harris sul magazine del Mit, sta vincendo largamente il secondo. Ed è questa la ragione principale perché i più giovani, la Generazione Z, stanno riscoprendo il socialismo. Che dato ufficialmente per morto dopo la fine dell’Unione sovietica e il crollo del Muro di Berlino, sta rinascendo in tutto l’Occidente sviluppato, ma soprattutto nel Paese che praticamente non lo aveva mai conosciuto: gli Usa

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Ovviamente la sfida fra i due campi, keynesiani e marxiani, resta aperta e tutta da verificare. Ma abbiamo tempo 10 anni. Nel frattempo però, tornando al tema della riduzione dell’orario di lavoro, dobbiamo sottolineare come il confronto non sia tanto o solo economico, ma soprattutto culturale. È noto infatti che in Italia si lavora molto ma la produttività è fra le più basse dell’area Ue e Ocse. Dal 2000 al 2016, dice l’ultimo Rapporto Istat sulla competitività dei settori produttivi, siamo cresciuti dello 0,4% contro il 15% di Francia, Inghilterra e Spagna, e il 18,3 della Germania. Ma le più recenti sperimentazioni, per esempio di Microsoft in Giappone, che hanno testato la settimana lavorativa di 4 giorni con il risultato di un aumento della produzione del 40%, dimostrano che l’ossessione tossica del lavorare 24/7 fa male sia ai lavoratori sia alle aziende. Però liberarsi di questa ossessione richiede uno sforzo culturale immenso. Perché a partire dalla prima rivoluzione industriale il lavoro è stato ed è la forma di legittimazione fondamentale della nostra esistenza. Economica, ma anche morale, valoriale, caratteriale. 

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Ora tuttavia e sempre più nei prossimi anni l’accelerato processo di trasferimento alle macchine del lavoro umano apre inediti spazi di liberazione. Ma c’è chi li vede e in qualche modo li anticipa come la prima ministra finlandese, chi invece come la quasi totalità dei nostri imprenditori e politici continua ad avere una concezione novecentesca del lavoro. Correva l’anno 1977 e il nascente movimento autonomo scandiva a Bologna lo slogan: «Lavoro zero, reddito intero. Tutta la produzione all’automazione». Tragico o divertente che sia – ma probabilmente entrambe le cose – erano molto più avanti, visionari e sfidanti, gli “indiani metropolitani” di 40 anni fa della nostra attuale classe dirigente e di governo.

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Sull’intelligenza artificiale Violante è prigioniero del passato

Il suo approccio pedagogico è anti-moderno. Figlio di una vecchia cultura organicistica che non fa i conti col presente né tantomeno col futuro.

Può capitare di non condividere le idee di persone con le quali lavori ovvero che vivono nel tuo stesso luogo di lavoro. Il 9 dicembre mi sono imbattuto in una auto-intervista dell’onorevole Luciano Violante, presidente della Fondazione Leonardo (che è altra cosa dalla rivista “Civiltà delle Macchine” che gode di una sua autonomia tutelata dalle leggi sulla stampa e dalla lungimiranza del vertice dell’azienda Leonardo) in cui si riproponevano i temi del convegno svoltosi recentemente alla Camera e promosso da Violante sull’intelligenza artificiale. La materia va molti di moda. Ci sono convegni bisettimanali. La novità e persino l’oscurità della prospettiva sollecitano pareri informati e un nugolo di pensieri approssimativi.

NON È UNA GARA A CHI COSTRUISCE LA GABBIA MIGLIORE

Il tema che si pone Violante, e che si pongono altri, è se mettere un limite all’invadenza dell’intelligenza artificiale e se, e come, va difeso l’umanesimo, chiamato anch’esso digitale, in questa fase storica. Il tema vede molteplici aspetti soprattutto se chiamiamo in campo scienziati che già vivono nel “dopodomani”. Spesso noi, invece, viviamo ancora all’interno di “ieri”, alla storia dei dati privati di cui si impadroniscono aziende e Stati. È un problema serio ma temo che il suggerimento di Violante «pedagogia per arrivare a regole» sia quanto di più anti-moderno si possa proporre ed è prigioniero di una vecchia cultura organicistica. Il tema vero è un altro: è quello di accelerare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale in tutti i campi per verificare come e dove nascono, se nascono, i problemi di un nuovo umanesimo. È una sfida di intelligenze e di sapere, non una gara a chi costruisce la gabbia migliore.

PEDAGOGHI E GIURISTI NON SERVONO

Ogni rivoluzione tecnologica ha posto problemi di compatibilità con la natura, con l’umanesimo e con l’antropologia. Non si possono tuttavia stabilire regole e pedagogia, tantomeno regole pedagogiche. Si tratta viceversa di mettere a disposizione di grandi masse umane le risorse che il nuovo mondo ipertecnologico, che viaggia nella Rete e nello Spazio, può suggerire. Non ci servono pedagoghi e giuristi. È del tutto evidente che il tema vero è che gli Stati saranno lentamente logorati dallo sviluppo della conoscenza a disposizione dei singoli. Ci porremo il problema dell’umanesimo quando arriveremo su Marte? No, valuteremo ciò che avremo trovato e come combinare quello che sappiamo con quello che apprendiamo immergendoci nel domani e se quello che sappiamo è in grado di farci apprendere nuove cose e far fare un salto alla nostra umanità.

LE SARDINE E QUEL POPOLO DI INFORMATI CONSAPEVOLI

Il ruolo delle grandi aziende è fondamentale in questa rottura culturale che tende a ricomporre un più alto compromesso. Si parla di imprese che vivono nella società, che di questa si occupano, che danno vita a esperienze, anche attraverso fondazioni e giornali, non al servizio dell’accademia e della casta, ma di quel popolo che oggi si fa chiamare “delle sardine“, domani in altro modo, ma è il mondo degli informati consapevoli che non sanno che farsene di pedagogia e regole. E di giuristi.

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