Il giornalista Chamorro denuncia la repressione di Ortega in Nicaragua

Centinaia di contestatori arrestati. Chiese attaccate dai paramilitari. Il Paese da un anno vive in uno stato d'assedio. Tornato dall'esilio in Costa Rica, il direttore de El Confidencial si dice pronto a lottare contro il regime di Managua. E ripercorre la speranza tradita della rivoluzione sandinista. L'intervista.

«Non torno in Nicaragua perché la situazione è migliorata. Torno per lottare», dice a Lettera43.it Carlos Fernando Chamorro, direttore del settimanale El Confidencial ed erede di una famiglia che ha fatto la storia del Paese centroamericano da un anno infiammato dalle proteste anti-Ortega.

L’omicidio nel 1978 del padre di Chamorro, il giornalista Pedro Joaquín Chamorro Cardenal scatenò la rivoluzione contro il regime dei Somoza. Sua madre Violeta Barrios Torres de Chamorro a capo dell’opposizione sconfisse i sandinisti alle Presidenziali del 1990.

In quell’occasione, i quattro figli si divisero: due si schierarono con la madre, due con Daniel Ortega, tra cui Carlos Fernando al tempo direttore del giornale sandinista Barricada. Dopo quella parentesi, è però passato all’opposizione e lo scorso gennaio ha deciso di lasciare il Nicaragua per trasferirsi in Costa Rica. Da pochi giorni, però, ha fatto ritorno in patria. «Il regime non è riuscito a schiacciare gli oppositori», spiega, «continua la resistenza degli studenti universitari, dei prigionieri politici, delle madri delle vittime che reclamano giustizia, dei giornalisti. Sono tornato proprio per unirmi alla loro lotta».

Carlos Fernando Chamorro con aka moglie Desiree Elizondo al suo ritorno in Nicaragua lo scorso 25 novembre.

DOMANDA. Perché a gennaio ha deciso di lasciare il Nicaragua?  
RISPOSTA. C’era una situazione critica. La mia redazione era stata occupata dalla polizia senza alcun mandato, il giornale sequestrato. Erano stati arrestati i giornalisti Miguel Mora e Lucia Pineda. Inoltre ero venuto a conoscenza di piani e ordini per catturare altri colleghi, me compreso. Così sono andato in esilio per preservare la mia libertà e quella di mia moglie.

Non ha abbandonato il giornalismo, però.
Esatto, non ho mai smesso di lavorare. In Costa Rica siamo riusciti a riorganizzare la nostra produzione televisiva grazie alla solidarietà di Teletica. Espulsi dall’etere e dal cavo, ci siamo trasferiti su YouTube e sui social network. La mia redazione si è dispersa: una parte è andata in esilio, molti giornalisti sono rimasti in Nicaragua. Ma abbiamo sempre continuato a raccontare storie.

La situazione in Nicaragua è ancora tesa. Cosa l’ha spinta a fare ritorno?
Abbiamo valutato il rischio, e ci siamo presi una grande responsabilità, perché in effetti in Nicaragua non ci sono garanzie. Ma torno per fare pressione, per chiedere la restituzione del Confidencial, e per riprendere a fare giornalismo in questo Paese a contatto diretto con la sua realtà e la sua gente. In Costa Rica restano decine di migliaia di rifugiati che non possono tornare fino a quando non ci sarà un cambio democratico e saranno smantellati i paramilitari. Si vive di fatto in uno stato d’assedio. Dopo la crisi in Bolivia nelle ultime settimane si è registrata una escalation nella repressione. Ma il regime ha fallito, perché non è riuscito a schiacciare l’opposizione. Continua la resistenza degli studenti universitari, dei prigionieri politici, delle madri degli assassinati che reclamano giustizia, dei giornalisti che cercano di garantire la libertà di stampa. La mia decisione di tornare è per appoggiare la loro lotta.

Proteste anti-governative a Managua, Nicaragua.

A luglio la Rivoluzione sandinista ha celebrato i suoi 40 anni. Immaginava nel 1979 che si sarebbe ritrovato in una situazione del genere? 
La rivoluzione, con il rovesciamento di Somoza, fu un momento di speranza in un cambio profondo. Ma in seguito ha generato i suoi demoni. Il Paese ha vissuto grandi trasformazioni, ma la guerra civile ha causato ferite profonde. La rivoluzione si concluse nel febbraio 1990, con la sconfitta elettorale del Fronte sandinista che da allora entrò in crisi. Ci fu un tentativo di democratizzazione con la creazione del Movimento rinnovatore sandinista che cercò e che cerca ancora di essere un partito di sinistra democratica.

Cosa non ha funzionato?
Ortega ha monopolizzato i simboli e le bandiere della rivoluzione. E quando è tornato al potere, nel 2007, ha dato vita a un governo autoritario, neoliberale, sfociato in una dittatura sanguinaria. Come avremmo potuto prevedere che un rivoluzionario che aveva contributo a sconfiggere Somoza si sarebbe trasformato in un dittatore? È qualcosa che supera ogni immaginazione.

Daniel Ortega con la moglie e vicepresidente Rosario Murillo.

Lei era uno stretto collaborare di Ortega. Riesce a spiegare i motivi profondi di questa trasformazione?
Ortega non era il solo leader del Fronte sandinista, è uno Stalin tropicale, assolutamente incapace di ogni autocritica, e completamente manipolato dalla moglie, vicepresidente. Ormai la gente non parla più di Ortega, ma di Ortega e Murillo: gli Ormu. Un duo indissolubile che si aggrappa disperatamente al potere, sono una coppia che è peggio di quella di House of Cards

Eppure la storia insegna che a ogni rivoluzione segue un “Terrore”. Davvero non era prevedibile anche in Nicaragua?
Forse abbiamo sofferto la carenza di cultura democratica a causa del cosiddetto caudillismo latinoamericano. Ortega non è stato l’unico ad avere intrapreso un percorso del genere. Credo che il peccato originale della rivoluzione sia stato non aver sottoposto il potere al controllo dei cittadini. Ne è derivato un regime assoluto non solo di un partito, ma di una famiglia. Esattamente come era accaduto con Somoza.

Tutta l’America Latina in questo momento si sta infiammando. Cosa accade?
Sono movimenti spesso imprevedibili come nel caso cileno. Fenomeni con dinamiche e soggetti differenti. In alcuni casi si protesta per la mancanza di opportunità, per la mancanza di equità, per la mancanza di partecipazione politica. In altri contro brogli elettorali, come in Bolivia. Ma il mondo di Ortega è chiuso tra Caracas e L’Avana. Le dimissioni e la fuga di Evo Morales, secondo l’analisi del regime, sono solo il frutto di un complotto. La soluzione è semplice: aumentare la repressione.

Dopo l’assedio della cattedrale di Managua, i paramilitari hanno circondato una chiesa di San Miguel a Masaya dove un sacerdote e 13 madri di detenuti politici erano in sciopero della fame.
E dire che quando Ortega cominciò la campagna per tornare al potere, tra il 2003 e il 2004, chiese pubblicamente perdono per gli errori della rivoluzione sandinista e gli abusi contro la Chiesa. Con la crisi del regime, si era rivolto ai vescovi per instaurare un dialogo nazionale, visto che erano gli unici a godere del rispetto e della fiducia della popolazione. Ma quando il tentativo è fallito Ortega non ci ha pensato due volte e ha cominciato ad attaccare chiese e prelati. Adesso si assiste a una nuova escalation perché la Chiesa continua a stare a fianco delle vittime del regime. Ciò che è accaduto nella chiesa di San Miguel dimostra che il regime è in fase terminale ed è quindi più pericoloso. Attaccando la Chiesa, Ortega si sta tagliando tutte le possibili vie di fuga.


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Il giornalista Chamorro denuncia la repressione di Ortega in Nicaragua

Centinaia di contestatori arrestati. Chiese attaccate dai paramilitari. Il Paese da un anno vive in uno stato d'assedio. Tornato dall'esilio in Costa Rica, il direttore de El Confidencial si dice pronto a lottare contro il regime di Managua. E ripercorre la speranza tradita della rivoluzione sandinista. L'intervista.

«Non torno in Nicaragua perché la situazione è migliorata. Torno per lottare», dice a Lettera43.it Carlos Fernando Chamorro, direttore del settimanale El Confidencial ed erede di una famiglia che ha fatto la storia del Paese centroamericano da un anno infiammato dalle proteste anti-Ortega.

L’omicidio nel 1978 del padre di Chamorro, il giornalista Pedro Joaquín Chamorro Cardenal scatenò la rivoluzione contro il regime dei Somoza. Sua madre Violeta Barrios Torres de Chamorro a capo dell’opposizione sconfisse i sandinisti alle Presidenziali del 1990.

In quell’occasione, i quattro figli si divisero: due si schierarono con la madre, due con Daniel Ortega, tra cui Carlos Fernando al tempo direttore del giornale sandinista Barricada. Dopo quella parentesi, è però passato all’opposizione e lo scorso gennaio ha deciso di lasciare il Nicaragua per trasferirsi in Costa Rica. Da pochi giorni, però, ha fatto ritorno in patria. «Il regime non è riuscito a schiacciare gli oppositori», spiega, «continua la resistenza degli studenti universitari, dei prigionieri politici, delle madri delle vittime che reclamano giustizia, dei giornalisti. Sono tornato proprio per unirmi alla loro lotta».

Carlos Fernando Chamorro con aka moglie Desiree Elizondo al suo ritorno in Nicaragua lo scorso 25 novembre.

DOMANDA. Perché a gennaio ha deciso di lasciare il Nicaragua?  
RISPOSTA. C’era una situazione critica. La mia redazione era stata occupata dalla polizia senza alcun mandato, il giornale sequestrato. Erano stati arrestati i giornalisti Miguel Mora e Lucia Pineda. Inoltre ero venuto a conoscenza di piani e ordini per catturare altri colleghi, me compreso. Così sono andato in esilio per preservare la mia libertà e quella di mia moglie.

Non ha abbandonato il giornalismo, però.
Esatto, non ho mai smesso di lavorare. In Costa Rica siamo riusciti a riorganizzare la nostra produzione televisiva grazie alla solidarietà di Teletica. Espulsi dall’etere e dal cavo, ci siamo trasferiti su YouTube e sui social network. La mia redazione si è dispersa: una parte è andata in esilio, molti giornalisti sono rimasti in Nicaragua. Ma abbiamo sempre continuato a raccontare storie.

La situazione in Nicaragua è ancora tesa. Cosa l’ha spinta a fare ritorno?
Abbiamo valutato il rischio, e ci siamo presi una grande responsabilità, perché in effetti in Nicaragua non ci sono garanzie. Ma torno per fare pressione, per chiedere la restituzione del Confidencial, e per riprendere a fare giornalismo in questo Paese a contatto diretto con la sua realtà e la sua gente. In Costa Rica restano decine di migliaia di rifugiati che non possono tornare fino a quando non ci sarà un cambio democratico e saranno smantellati i paramilitari. Si vive di fatto in uno stato d’assedio. Dopo la crisi in Bolivia nelle ultime settimane si è registrata una escalation nella repressione. Ma il regime ha fallito, perché non è riuscito a schiacciare l’opposizione. Continua la resistenza degli studenti universitari, dei prigionieri politici, delle madri degli assassinati che reclamano giustizia, dei giornalisti che cercano di garantire la libertà di stampa. La mia decisione di tornare è per appoggiare la loro lotta.

Proteste anti-governative a Managua, Nicaragua.

A luglio la Rivoluzione sandinista ha celebrato i suoi 40 anni. Immaginava nel 1979 che si sarebbe ritrovato in una situazione del genere? 
La rivoluzione, con il rovesciamento di Somoza, fu un momento di speranza in un cambio profondo. Ma in seguito ha generato i suoi demoni. Il Paese ha vissuto grandi trasformazioni, ma la guerra civile ha causato ferite profonde. La rivoluzione si concluse nel febbraio 1990, con la sconfitta elettorale del Fronte sandinista che da allora entrò in crisi. Ci fu un tentativo di democratizzazione con la creazione del Movimento rinnovatore sandinista che cercò e che cerca ancora di essere un partito di sinistra democratica.

Cosa non ha funzionato?
Ortega ha monopolizzato i simboli e le bandiere della rivoluzione. E quando è tornato al potere, nel 2007, ha dato vita a un governo autoritario, neoliberale, sfociato in una dittatura sanguinaria. Come avremmo potuto prevedere che un rivoluzionario che aveva contributo a sconfiggere Somoza si sarebbe trasformato in un dittatore? È qualcosa che supera ogni immaginazione.

Daniel Ortega con la moglie e vicepresidente Rosario Murillo.

Lei era uno stretto collaborare di Ortega. Riesce a spiegare i motivi profondi di questa trasformazione?
Ortega non era il solo leader del Fronte sandinista, è uno Stalin tropicale, assolutamente incapace di ogni autocritica, e completamente manipolato dalla moglie, vicepresidente. Ormai la gente non parla più di Ortega, ma di Ortega e Murillo: gli Ormu. Un duo indissolubile che si aggrappa disperatamente al potere, sono una coppia che è peggio di quella di House of Cards

Eppure la storia insegna che a ogni rivoluzione segue un “Terrore”. Davvero non era prevedibile anche in Nicaragua?
Forse abbiamo sofferto la carenza di cultura democratica a causa del cosiddetto caudillismo latinoamericano. Ortega non è stato l’unico ad avere intrapreso un percorso del genere. Credo che il peccato originale della rivoluzione sia stato non aver sottoposto il potere al controllo dei cittadini. Ne è derivato un regime assoluto non solo di un partito, ma di una famiglia. Esattamente come era accaduto con Somoza.

Tutta l’America Latina in questo momento si sta infiammando. Cosa accade?
Sono movimenti spesso imprevedibili come nel caso cileno. Fenomeni con dinamiche e soggetti differenti. In alcuni casi si protesta per la mancanza di opportunità, per la mancanza di equità, per la mancanza di partecipazione politica. In altri contro brogli elettorali, come in Bolivia. Ma il mondo di Ortega è chiuso tra Caracas e L’Avana. Le dimissioni e la fuga di Evo Morales, secondo l’analisi del regime, sono solo il frutto di un complotto. La soluzione è semplice: aumentare la repressione.

Dopo l’assedio della cattedrale di Managua, i paramilitari hanno circondato una chiesa di San Miguel a Masaya dove un sacerdote e 13 madri di detenuti politici erano in sciopero della fame.
E dire che quando Ortega cominciò la campagna per tornare al potere, tra il 2003 e il 2004, chiese pubblicamente perdono per gli errori della rivoluzione sandinista e gli abusi contro la Chiesa. Con la crisi del regime, si era rivolto ai vescovi per instaurare un dialogo nazionale, visto che erano gli unici a godere del rispetto e della fiducia della popolazione. Ma quando il tentativo è fallito Ortega non ci ha pensato due volte e ha cominciato ad attaccare chiese e prelati. Adesso si assiste a una nuova escalation perché la Chiesa continua a stare a fianco delle vittime del regime. Ciò che è accaduto nella chiesa di San Miguel dimostra che il regime è in fase terminale ed è quindi più pericoloso. Attaccando la Chiesa, Ortega si sta tagliando tutte le possibili vie di fuga.


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