Incendio nel cantiere del viadotto Polcevera a Genova

In fiamme la pila 13, al momento non si registrano feriti. Il rogo sarebbe partito dalle scintille di un flessibile usato da un operaio.

Un grosso incendio è divampato nel cantiere del nuovo viadotto Polcevera a Genova. Le fiamme hanno avvolto la pila 13. Sul posto sono intervenute cinque squadre dei vigili del fuoco. Al momento non si registrano feriti. Via Fillak è stata chiusa al traffico per consentire le operazioni in sicurezza.

LE POSSIBILI CAUSE DEL ROGO

Secondo una prima ricostruzione, il rogo sarebbe partito da un flessibile usato da un operaio. Le scintille avrebbero raggiunto strutture in polistirolo all’interno della pila, dando origine all’incendio.

LAVORI IN RITARDO

Le fiamme sono adesso sotto controllo, ma l’incidente è destinato a causare ulteriori ritardi nei lavori, che si aggiungono al mese e mezzo annunciato nelle scorse settimane dal sindaco di Genova Marco Bucci, commissario per la ricostruzione.

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Auto a maggio sul nuovo Ponte Morandi

L'annuncio del sindaco di Genova e commissario per la ricostruzione Bucci durante un sopralluogo col governatore Toti.

Le prime auto potrebbero circolare sul nuovo Ponte Morandi già a maggio. L’annuncio è arrivato sindaco di Genova e commissario per la ricostruzione del viadotto sul Polcevera Marco Bucci durante un sopralluogo al cantiere con il governatore della Liguria Giovanni Toti.«Tutti i lavori edilizi, non quelli di acciaio ma le pile, saranno terminati entro la fine di gennaio», ha spiegato Bucci. «Questo consentirà di vedere a metà marzo il ponte completo con tutte le infrastrutture in acciaio montate. A metà maggio, pensiamo, potrà passare la prima macchina».

TOTI: «IL CANTIERE AVANZA E LO VEDETE CRESCERE»

«Il cantiere del ponte va avanti tutti i giorni e lo vedete crescere», ha aggiunto Toti, «anche se, ovviamente, il maltempo ha pesato sulla Liguria e sulle lavorazioni in cantiere. Io resto ottimista sul fatto che, settimana più o settimana meno, dobbiamo chiudere questo cantiere prima dell’estate». E ancora: «Chiunque remi contro non fa un dispetto a Toti o a Bucci, ma lo fa a tutta la Liguria, ai cittadini, alle sue imprese e all’Italia e, quindi, dobbiamo essere uniti e compatti a chiudere nei tempi questo lavoro, così come abbiamo promesso, perché siamo sotto gli occhi del mondo e ne va della credibilità del sistema Paese».

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Italia insicura

Dopo il cedimento del viadotto sull'A6 i renziani attaccano Lega e M5s per aver smantellato l'unità di missione contro il dissesto idrogeologico. Dal canto loro però i gialloverdi hanno inaugurato l'Ansfisa, agenzia voluta da Toninelli, ancora lettera morta. Il tutto mentre il Paese continua a sprofondare.

Cede un altro viadotto, fortunatamente senza vittime, e riparte la polemica politica. Ad alimentarla questa volta è Italia Viva. Se Matteo Renzi chiede di sbloccare 120 miliardi di euro per le grandi opere, Maria Elena Boschi affonda il colpo accusando Lega e Movimento 5 stelle di aver smantellato Italia Sicura, l’unità di missione della Presidenza del Consiglio creata nel 2014 per arginare la fragilità idrogeologica del Paese. In effetti Italia Sicura è stata chiusa senza troppi complimenti nell’estate del 2018 dal governo Conte I perché ritenuta «ente inutile». I gialloverdi hanno poi trasferito al ministero dell’Ambiente i compiti in materia di «contrasto al dissesto idrogeologico, di difesa e messa in sicurezza del suolo e di sviluppo delle infrastrutture idriche». E hanno inaugurato dopo la tragedia del Morandi, l’ennesima agenzia per la sicurezza di strade e ferrovie, l’Ansfisa, rimasta lettera morta.

UNA STRUTTURA PER COORDINARE MINISTERI E REGIONI

Ma cos’era Italia Sicura? Nata nel 2014 per coordinare ministeri – Ambiente, Infrastrutture, Agricoltura, Economia e Beni culturali – Regioni e altri enti sul territorio, la struttura di missione si riprometteva, recita la dicitura, di «rendere visibile l’operato del governo sull’assetto idrogeologico del Paese attraverso la pubblicazione e la georeferenziazione degli interventi programmati dai diversi attori istituzionali». Come? Attraverso un sito oggi non più raggiungibile e una mappa delle criticità, ancora online ma rimasta in versione beta.

IL PIANO FINANZIARIO

Veniamo ai soldi da stanziare. Nel 2017 Erasmo D’Angelis, coordinatore di Italia Sicura, presentando il piano nazionale disse: «Siamo riusciti a costruire il primo piano nazionale del fabbisogno di opere e il primo piano finanziario con un ritaglio iniziale di 7 miliardi nei prossimi 7 anni. Con i 2,7 recuperati», aggiunse, «siamo a 9,8. Ma è stato uno choc scoprire che il 90% delle opere in elenco sono ancora da progettare». Il piano finanziario 2015-2023 prevedeva appunto 9.869 milioni di cui un migliaio chiesti in prestito alla Bei, la Banca europea degli investimenti.

IL PRESTITO DI 800 MILIONI DELLA BEI

Il 22 dicembre del 2017 il Mef in un comunicato stampa scriveva: «La Banca europea per gli investimenti affianca lo Stato italiano negli interventi per la prevenzione dei danni causati dal dissesto idrogeologico. Il ministero dell’Economia e delle Finanze riceverà un finanziamento di 800 milioni di euro, di cui la prima tranche, pari a 400 milioni, è stata sottoscritta. Il credito sosterrà circa 150 programmi per la messa in sicurezza del territorio sotto il coordinamento del ministero dell’Ambiente». Nel dettaglio, gli interventi riguardavano «la realizzazione o il rafforzamento degli argini dei fiumi a rischio esondazione, la risistemazione dei corsi d’acqua e dei canali di collegamento, le casse di espansione lungo fiumi e torrenti, interventi per prevenire erosioni costiere o frane. Gli 800 milioni approvati copriranno circa il 50% del valore dei progetti previsti entro il 2022 dal citato Piano nazionale».

I GIALLOVERDI CHIUDONO ITALIA SICURA

Con il governo M5s-Lega le cose però sono cambiate. E la struttura venne chiusa. Il neo ministro all’Ambiente Sergio Costa spiegò in commissione Territorio della Camera il 5 luglio 2018: «Si dovrà dare nuovo impulso alle misure di contrasto del dissesto idrogeologico attraverso azioni di prevenzione. In particolare», sottolineò, «riportando in capo al ministero dell’Ambiente la diretta competenza sul tema che nell’ultima legislatura era stata ceduta a una struttura di missione dislocata presso la Presidenza del Consiglio, evitando gli ulteriori costi per la finanza pubblica richiesti dalle strutture create ad hoc dai precedenti governi presso la Presidenza del Consiglio». Insomma, per i gialloverdi Italia Sicura rappresentava un eccesso di deleghe e uno spreco di risorse pubbliche. Nulla che non potesse essere gestito dal ministero dell’Ambiente.

COSTA E LA DECISIONE DA BUON PADRE DI FAMIGLIA

Costa era finito al centro di diverse polemiche perché il primo novembre 2018 rispondendo alla Stampa (che aveva riportato come il governo non avesse intenzione di ottenere gli 800 milioni della Bei per la realizzazione di opere contro il dissesto idrogeologico chiesti dall’ormai defunta Italia Sicura a un tasso di interesse sotto l’1% quindi estremamente conveniente), dichiarò che «il mutuo» sarebbe stato contrario «all’amministrazione dei soldi pubblici da buon padre di famiglia», poiché «gli interessi sarebbero stati pagati da tutti i cittadini». E «quale padre di famiglia, potendo avere soldi in cassa, preferisce indebitarsi con un mutuo? Oltretutto affrontando complesse pratiche di mutuo di difficile gestione». Dichiarazioni che Costa limò dopo le alluvioni che colpirono la Sicilia causando la morte di nove persone.

IL NULLA DI FATTO DELL’ANSFISA

Di fondi si era riparlato anche all’indomani della tragedia del ponte Morandi che il 14 agosto 2018 causò la morte di 43 persone. L’allora ministro alle Infrastrutture Danilo Toninelli annunciò la nascita di una nuova agenzia – l’Ansfisa – per la sicurezza di strade, viadotti e ferrovie. Un progetto rimasto però sulla carta. La struttura, come ha scritto il Corriere della Sera, è infatti attesa del parere del Consiglio di Stato su un regolamento attuativo scritto solo nel luglio 2019. Erano previste 500 assunzioni tra ispettori e dirigenti ma al momento non se n’è ancora fatto nulla. «Sulla nuova Agenzia per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali ed autostradali registriamo un ritardo gravissimo», ha ribadito il 25 novembre Manuela Gagliardi, deputata di Cambiamo! il partito di Giovanni Toti. «Ancora un mese fa, in occasione di una mia interrogazione alla Camera, dal ministero delle Infrastrutture sono arrivate solo risposte interlocutorie. Nonostante gli annunci in pompa magna dell’allora ministro Toninelli, l’Ansfisa è ancora solo un progetto. Su questo, molto più che sulle polemiche strumentali, dovrebbe concentrarsi il M5s». Intanto, dopo il crollo dell’ennesimo viadotto, l’agenzia ha nominato un nuovo direttore, Fabio Croccolo, dirigente del Mit, indicato al presidente del Consiglio dei ministri dalla ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti Paola De Micheli. E siamo punto a capo.

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Il tesoretto mai speso per infrastrutture e contro il dissesto idrogeologico

Con il crollo dell'ennesimo viadotto si torna a parlare di investimenti in opere pubbliche. Ma dove prendere i miliardi? In realtà ci sono, ma non si usano. O sono stati investiti in altre "emergenze". Senza parlare dei fondi europei e dei cantieri congelati. Il punto.

Il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia in un’intervista a Repubblica chiede al governo di stanziare 60 miliardi per le infrastrutture.

Italia viva rilancia e chiede di ripristinare l’unità di missione contro il dissesto idrogeologico “liberando” 120 miliardi di euro di opere bloccate.

Il giorno dopo l’ennesimo viadotto autostradale sfarinato, tornano a rincorrersi le dichiarazioni eclatanti.

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Non a caso, l’ultima volta che venne annunciato un piano Marshall per riaprire i cantieri fu nelle ore immediatamente successive al crollo del ponte Morandi, quando l’allora ministro alle Infrastrutture Danilo Toninelli dichiarò: «Serve un piano straordinario. Avvieremo una mappatura per valutare quali siano le infrastrutture potenzialmente a rischio e poi faremo prevenzione».

QUEL TESORETTO DA 150 MILIARDI MAI UTILIZZATO

A pochi giorni dalla tragedia del viadotto sul Polcevera, durante la presentazione del Contratto standard di partenariato pubblico-privato per la realizzazione di opere pubbliche, Giovanni Tria lanciò un allarme caduto nel vuoto: i soldi ci sono, ma non sono mai stati spesi. Secondo l’allora titolare del ministero dell’Economia, i vari governi avevano accantonato 150 miliardi in 15 anni, già defalcati dal deficit.

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Di questi, per Tria 118 miliardi erano «considerabili immediatamente attivabili», ma bloccati da procedure complesse e da una insufficiente capacità progettuale. Con il risultato che, per la messa in pratica di opere di impatto minimo, dal valore di 100 mila euro, ci vorrebbero almeno due anni, che diventano 15 per le grandi opere (sopra i 100 milioni).

NEL 2018 NON SONO STATI SPESI 6 MILIARDI

Il risultato? Gran parte degli annunci più roboanti fatti dai politici negli ultimi tempi riguardavano somme già stanziate ma mai utilizzate. Tesoretti solo su carta, successivamente destinati ad altre finalità a seconda dell’emergenza del momento, magari per coprire regalie dal sapore elettorale. Per fare un esempio, secondo l’ultimo Consuntivo finale del bilancio dello Stato, nel 2018 circa 6 miliardi di euro per le infrastrutture (per la precisione, 5,7 miliardi) non sono stati spesi dall’apposito dicastero, col risultato di venire cancellati dal bilancio

IL NODO DEI FONDI EUROPEI

Un male tutto italiano che riguarda anche i fondi europei. In più occasioni, infatti, i politici italiani hanno dichiarato che sarebbero i vincoli imposti da Bruxelles a frenare la spesa pubblica, non ultimo Matteo Salvini, proprio nel giorno del crollo del ponte Morandi («Se ci sono vincoli europei che ci impediscono di spendere soldi per mettere in sicurezza le scuole dove vanno i nostri figli o le autostrade su cui viaggiano i nostri lavoratori, metteremo davanti a tutto e a tutti la sicurezza degli italiani»).

Ma non è affatto così. Spulciando i documenti europei, è possibile constatare non solo che «l’Italia è uno dei maggiori beneficiari dei fondi strutturali e di investimento europei» (fondi Sie) ma anche che il nostro Paese non li utilizza. «Alla fine del 2018», si legge nell’ultimo report, «l’Italia era in ritardo nell’attuazione dei fondi Sie rispetto alla media dell’Ue. In termini di tasso di selezione (% della dotazione totale selezionata per l’attuazione di progetti specifici), il livello registrato per l’Italia è del 56% rispetto al 63% per l‘Unione europea nel suo complesso. Analogamente, sebbene abbia reso possibile il conseguimento degli obiettivi di fine anno per il 2018, il tasso dei pagamenti per l’Italia (20%) rimane al di sotto della media dell’Ue (27%)».

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Nel solo settore delle infrastrutture, 2,45 miliardi di euro di fondi comunitari sono stati assegnati agli investimenti nelle reti viarie, 1,4 miliardi alle infrastrutture per i trasporti urbani sostenibili. A bloccare i cantieri non solo dimenticanze perché, come aveva sottolineato l’Ufficio Valutazione Impatto del Senato, il 90% dei progetti che il nostro Paese aveva presentato a Bruxelles per il finanziamento aveva un’insufficiente analisi costi-benefici, il 70% problemi sulla valutazione del mercato interno o nell’impianto progettuale, il 50% lacune nella valutazione ambientale.

L’84% DELLE OPERE CONGELATO PRIMA DELL’APERTURA DEI CANTIERI

A questo male endemico consegue l’elenco sterminato di cantieri bloccati per i più disperati motivi. L’Ance (Associazione nazionale costruttori edili) ha persino pubblicato un sito (Sbloccacantieri.it) per monitorare costantemente la situazione in tutto il Paese. Secondo i dati dell’osservatorio, l’84% delle opere viene congelato persino prima dell’apertura dei cantieri. Le cause sono le più disparate e vanno da motivi amministrativi (43% dei casi), finanziari (36%) o legati a decisioni politiche  (19%). E molto spesso si accavallano, trasformando il dialogo che i privati dovrebbero riuscire a stabilire con la pubblica amministrazione in un percorso a ostacoli estenuante, fatto di carte bollate, ricorsi e avvocati.

DISSESTO IDROGEOLOGICO: USATO IL 20% DELLE RISORSE

Le cifre fin qui riportate riguardano il sistema delle infrastrutture nel suo complesso, quindi l’insieme delle risorse destinate sia alla costruzione di nuove opere sia allo sviluppo del sistema Paese. Con riferimento invece ai soli fondi destinati al dissesto idrogeologico, c’è un report redatto dalla Corte dei Conti che dimostra analoghe dimenticanze. Nella relazione “Fondo per la progettazione degli interventi contro il dissesto idrogeologico (2016-2018)” del 31 ottobre scorso, i magistrati contabili hanno preso in esame le modalità di funzionamento e di gestione del fondo, la governance, le responsabilità dei soggetti attuatori e l’efficacia delle misure emanate. È emerso uno «scarso utilizzo delle risorse stanziate per il fondo progettazione contro il dissesto idrogeologico e inefficacia delle misure sinora adottate, di natura prevalentemente emergenziale e non strutturale». Le risorse effettivamente erogate alle Regioni, a partire dal 2017, rappresentano, negli anni oggetto dell’indagine, solo il 19,9% del totale complessivo (100 milioni di euro). In particolare, i magistrati hanno evidenziato criticità su più livelli: «L’inadeguatezza delle procedure e la debolezza delle strutture attuative; l’assenza di adeguati controlli e monitoraggi; la mancata interoperabilità informativa tra Stato e Regioni; la necessità di revisione dei progetti approvati e/o delle procedure di gara ancora non espletate; la frammentazione e disomogeneità delle fonti dei dati sul dissesto».

L’ANSFISA SOFFOCATA DALLA BUROCRAZIA

Nello stesso documento la Corte suggeriva «l’adozione di un sistema unitario di banca dati di gestione del fondo, assicurando in tempi rapidi la revisione dell’attuale sistema, la semplificazione delle procedure di utilizzo delle risorse nonché il potenziamento del monitoraggio e del controllo sugli interventi». Non solo né il governo né il legislatore sono riusciti a fare niente di tutto ciò, ma si sono perse persino le tracce dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali (Ansfisa) che Toninelli annunciò subito dopo il crollo del Morandi per essere poi istituita con il decreto Genova. L’ultimo avvistamento lo scorso 17 luglio, 11 mesi dopo la tragedia che aveva colpito il capoluogo ligure, quando il Mit comunicò la trasmissione al Consiglio di Stato degli schemi di Regolamento e Statuto. Da allora non se ne è saputo più nulla. Per il pentastellato Nicola Morra, l’Ansfisa «non può iniziare i lavori sulle infrastrutture causa tempi della burocrazia», con il paradosso che l’Authority stessa sarebbe dunque paralizzata. L’ennesimo cantiere rimasto in sospeso, anche se nella serata del 25 novembre l’ingegnere Fabio Croccolo, dirigente del ministero dei Trasporti, è stato nominato direttore dell’Agenzia.

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Chi era a conoscenza del «rischio crollo» del Morandi

La guardia di finanza ha sequestrato un documento del consiglio di amministrazione di Autostrade. In cui nel 2015 si parlava della possibilità di cedimento. Ed era presente un rappresentante del dicastero dei Trasporti. La ministra De Micheli: «Cose inaccettabili e incomprensibili».

Il ministero dei Trasporti (Mit) sapeva che il Ponte Morandi sarebbe potuto venire giù? È l’inquietante rivelazione emersa da un documento finora rimasto segreto e sequestrato dalla guardia di finanza nella sede di Atlantia e di Autostrade.

CONDIVISO UN «INDIRIZZO DI RISCHIO BASSO»

I vertici del dicastero delle Infrastrutture nel 2015 erano a conoscenza del rischio crollo per il viadotto di Genova teatro della tragedia del 14 agosto 2018 che ha provocato la morte di 43 persone: alle sedute del consiglio di amministrazione di Autostrade per l’Italia infatti partecipa un rappresentante del Mit, membro del Collegio sindacale. E, secondo quanto riportarto da la Repubblica, proprio questo organo con il cda condivise «l’indirizzo di rischio basso» per il Morandi. Rischio basso, non rischio zero.

AUTOSTRADE PARLA DI «MASSIMO RIGORE»

Autostrade per l’Italia ha precisato che «la società non è in alcun modo disponibile ad accettare rischi operativi sulle infrastrutture. Di conseguenza, l’indirizzo del cda alle strutture operative è di presidiare e gestire sempre tale tipologia di rischio con il massimo rigore, adottando ogni opportuna cautela preventiva».

PERICOLO CONSIDERATO SOLO TEORICO

In particolare «per quanto riguarda l’area dei rischi operativi, nella quale rientrava anche la scheda del Morandi, il cda di Autostrade ha sempre espresso l’indirizzo di mantenere la propensione di rischio al livello più basso possibile». Un rischio solo teorico, insomma.

Ho letto quello che avete letto voi, il contenuto è per me inaccettabile. Anche intellettualmente incomprensibile


La ministra De Micheli

La ministra dei Trasporti Paola De Micheli ha commentato dicendo di aver «letto quello che avete letto voi, il contenuto è per me inaccettabile. Anche intellettualmente incomprensibile». E intanto il titolo di Atlantia in Borsa ha fatto registrare perdite influenzato da questi nuovi sviluppi.

OPERA CHE «NON ERA SOTTO CONTROLLO»

I finanzieri tra l’altro hanno sequestrato altre relazioni tecniche a corredo del “catalogo del rischio“. In cui gli ingegneri esprimevano preoccupazioni: «L’opera non si riesce a tenere sotto controllo» per via dell’impossibilità di monitorare gli stralli e i cassoni del viadotto. Quel documento sul rischio crollo già nel 2015 è stato sottoposto al vaglio dei cda di Aspi e Atlantia, in concomitanza alla presentazione del progetto di retrofitting (consolidamento) delle pile 9 (quella poi crollata) e 10.

NEL 2017 SI PARLÒ DI “PERDITA DI STATICITÀ”

Nel 2017 avvennero due variazioni. La responsabilità sul Morandi passò dalle Manutenzioni dirette da Michele Donferri Mitelli alla Direzione di tronco di Genova, guidata da Stefano Marigliani (entrambi indagati). E nel catalogo del rischio non si parlava più di “crollo”, ma di “perdita di staticità”.

DI MAIO: «PARLIAMO DELLA SICUREZZA DEI CITTADINI»

Sulla vicenda è intervenuto anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: «Quanto arriva una relazione sul rischio di crollo, parliamo della sicurezza dei cittadini italiani. E Autostrade parla di rischio teorico? Qual è il rischio pratico?». Di Maio, ospite a L’aria che tira su La7, ha detto che «negli ultimi 30 anni gruppi privati hanno avuto contratti blindati qualunque cosa accadesse alla manutenzione».

«I MORTI DEL MORANDI NON SI BARATTANO»

Poi su Alitalia: «A un certo punto si è fatta avanti Atlantia, che poi ha fatto marcia indietro. Se pensavano che entrando in Alitalia non gli avremmo tolto le concessioni autostradali si sbagliavano: i morti del ponte Morandi non si barattano con nessuno. Vinceremo la battaglia della revoca».

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«Il Morandi è a rischio crollo»: il documento del 2014 ignorato da Aspi e Atlantia

Secondo Repubblica, gli investigatori sarebbero in possesso di un rapporto che dava l'allarme sulle condizioni del Ponte tra il 2014 e il 2016.

Un documento ritrovato nel registro digitale di Atlantia dalla Guardia di Finanza parla esplicitamente di «rischio crollo» per il Ponte Morandi dal 2014 al 2016. La valutazione si è trasformata, dal 2017, in «rischio di perdita di stabilità». Lo fa sapere Repubblica.

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