David Grossman sul suo nuovo romanzo e il potere della parola

L’ultimo libro dell'autore israeliano, La vita gioca con me, è una genealogia della colpa: dietro a un male presente ce n’è sempre uno passato, ferite e cicatrici rimosse dalla propria consapevolezza. Ma non è sempre il perdono a interrompere la catena dell’odio.

Vale anche per i personaggi di David Grossman quello che Nietzsche sosteneva nella sua introduzione alla Genealogia della morale: «Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere, un bel giorno, di trovarsi?».

L’ultimo romanzo di Grossman, La vita gioca con me (Mondadori, pagg. 300, euro 21) nella efficace traduzione di Alessandra Shmoroni, è una genealogia della «colpa», più che della morale: dietro a un male presente ce n’è sempre uno passato, nodi che non si sono ancora sciolti, ferite e cicatrici rimosse dalla propria consapevolezza. E questo male, Grossman lo sa molto bene avendo vissuto quasi dagli inizi l’epopea del neo-Stato ebraico, si trasmette di generazione in generazione, fino a che non si arriva, talvolta, alla possibilità di un chiarimento. Ed ecco, allora, il corto circuito improvviso che scatena a terra la forza distruttrice del passato e ricrea nuovi spazi per la libertà e l’amore. Non sempre per il perdono, ma quello che possiamo fare è interrompere la catena dell’odio e riprendere in mano le nostre vite. Può sembrare poco, ma è già tantissimo.

L’ultimo romanzo di Grossman, a differenza dei precedenti, è costruito su una storia reale, quella di Eva Nahir-Panic, un’ebrea-croata trasferitasi in Israele dopo la morte del marito, ufficiale serbo. Dal punto di vista narrativo il romanzo ha una struttura a più livelli che intreccia microcosmo e macrocosmo, vita privata e frammenti di storia del Novecento, in un continuo elastico tra presente, passato e perfino futuro. Ci sono tre donne di generazioni successive che si incontrano in un kibbutz in Israele per la festa di compleanno della più anziana, Vera, che festeggia novant’anni con la figlia Nina, la nipote Ghili, che è anche l’io narrante del libro, e il figliastro e padre di Ghili, Rafael. Tre donne segnate dalla perdita devastante di un amore.

Quando il marito di Vera, Miloš Novak, muore suicida in Croazia per sfuggire alle torture della polizia di Tito, Vera rifiuta di infangarne la memoria e per questo viene condannata alla prigionia nel terribile campo di rieducazione di Goli Otok, una piccola isola selvaggia di fronte a Zara convertita a luogo di prigionia per dissidenti politici e criminali comuni. Ma la decisione di Vera ha un prezzo: l’abbandono al suo destino della figlia di sei anni e mezzo. Ecco il secondo amore infranto. Nina vivrà l’allontanamento dalla madre come un rifiuto e inizierà una vita infelice e raminga, incapace di costruire relazioni solide, neppure con il marito Rafael che continuerà ad amarla devotamente nelle sue fughe dalla famiglia e da Israele. Così, anche Ghili, la figlia di Nina, vive la stessa esperienza di dolore e abbandono, i medesimi rancori riversati sulla madre, generazione dopo generazione. Quando avviene l’incontro per il compleanno di Vera, il «quadrilatero degli affetti» sembra ritrovare una sua geometria, o almeno un tentativo di realizzarla. Ma la ricomposizione richiede un’ulteriore catarsi, un pellegrinaggio dei quattro personaggi nel passato di Vera in Croazia, fino al campo di Goli Otok.

Nel raccontare si riscopre la verità o, almeno, una parte di essa, finalmente condivisa e capace di guarire la memoria

Il pretesto narrativo è il documentario che Ghili propone di girare sulla storia della nonna, un modo per provare a rileggere il passato da un altro punto di vista, con la mediazione dell’obiettivo di una telecamera, come se le ferite, così profonde, rendessero impossibile alle tre donne raccontare il proprio destino direttamente alle altre. E, a Goli Otok, la genealogia della colpa si risolve finalmente nella catarsi, con le tre protagoniste che riemergono dolorosamente dal proprio passato con la prospettiva di una riconciliazione di nuovo possibile. Alla fine, la telecamera e il documentario famigliare diventano inutili, la parola, che per Grossman, come tutti gli ebrei, ha echi ben più profondi di quelli comuni, compie il miracolo: nel raccontare si riscopre la verità o, almeno, una parte di essa, finalmente condivisa e capace di guarire la memoria. Lettera43 ha incontrato lo scrittore israeliano in Italia per la presentazione del libro.

David Grossman (foto di Roberto Monaldo/LaPresse).

DOMANDA. Sono la parola, il racconto che guariscono dall’odio. Nel caso dell’ebraico è una “parola” che ha radici antichissime: quanto pesa questa eredità su uno scrittore?
RISPOSTA. C’è certamente un peso nella lingua ebraica: ha 4 mila anni di storia. È la lingua del ricordo, dell’identità nazionale che è costitutiva dell’universo mentale dei parlanti ebraico. Ma ha anche molti strati: il Talmud, la lingua medievale, quella attuale, di cui l’io narrante Ghili è espressione. Questo non lo vedo come un fardello, ma come un privilegio, perché nella mia scrittura c’è l’eco di tutto questo passato.
 
Questo è un libro sulla memoria, quella del passato che aiuta le tre donne a trovare una riconciliazione, e quella che andrà a perdersi nella mente di Nina, afflitta demenza senile.
È vero, questo è un libro sulla memoria: dolorosa, ma allo stesso tempo piena di freschezza, di verità. La memoria costa moltissimo sforzo, perché ti richiede di ricordare tutto in modo esatto, individuando il momento in cui sei diventato dipendente dal ricordo e come questo ti ha cambiato la vita. Ci sono popoli e persone che diventano prigionieri della memoria. Scelgono di aggrapparsi a essa e non vogliono muoversi su nuovi territori dove sarebbero molto più liberi di guardare al futuro. Soffrono dalla loro infanzia e questi sentimenti di dolore se li portano come un fardello per tutta la vita. Solo facendo posto a qualcosa d’altro possiamo riprendere a muoverci senza essere influenzati dal passato, ritornando a respirare a pieni polmoni. In questo modo possiamo riporre il dolore al suo posto, gli assegniamo un confine.

Le donne, tra cui l’io narrante, sono le protagoniste del racconto. Com’è possibile per uno scrittore identificarsi completamente nell’animo femminile?
Ho voluto scrivere questo romanzo come se non sapessi di essere io a scriverlo. Volevo capire innanzittutto chi erano queste tre donne. Ci sono tanti modi di essere donna, tanti quanto sono le donne al mondo. Non è un processo facile perché la tua anima ha una comfort zone da cui non vuole uscire. Il personaggio principale di A un cerbiatto somiglia il mio amore è Ora (in ebraico luce), una donna, appunto. Non riuscivo a impersonarlo pienamente, era come se io stessi mettendo delle parole che mancavano di un filamento. Quindi, preso dallo sconforto le scrissi una lettera: perché non ti arrendi a me, perché non ti lasci capire? Dopo compresi che non era Ora a doversi arrendere a me, ma io a lei. Solo dopo aver superato questi meccanismi di difesa ed essermi completamente esposto ho capito che cosa Ora rappresentava per me e per il romanzo.

Il mio è un libro su sulle tempeste che stravolgono una famiglia: è come se avessi riportato alla luce l’infrastruttura dell’essere

In questo caso non si è trattato solo di costruire un personaggio femminile, ma di mettere in scena una relazione molto problematica tra tre donne forti e complesse.
Nel libro c’è un forte conflitto tra di loro, si vede come sono vicine e poi si allontanano. Ma, se ci pensiamo, solo nelle famiglie troviamo questo dramma dell’essere vicini e dell’allontanarsi. È come una danza la cui intensità si sviluppa dentro ogni famiglia ed è determinata dagli eventi più o meno difficili che vi avvengono. Il mio è un libro su sulle tempeste che stravolgono una famiglia: è come se avessi riportato alla luce l’infrastruttura dell’essere.

Perche il narratore è Ghili, la donna più giovane delle tre?
Io volevo che fosse una delle tre donne a essere il narratore del romanzo, ma non poteva essere Vera troppo suscettibile di essere caricaturizzata per il forte accento della sua lingua croata d’origine. Nina, poi, è così lontana dagli altri, chiusa in sé stessa, non poteva essere la storyteller. Ghili m’ispirava un’aria di maggiore leggerezza, non era vittima dello scontro tremendo tra madre e figlia. E poi è ironica e mi permetteva di usare un ebraico più moderno.

C’è un unico protagonista maschio, Rafael, non certamente il punto forte del quadrilatero.
Rafael è dipendente dalle tre donne, ma serve a rendere stabile il rapporto tra di loro: è figlio di Vera anche se non biologico, è marito di Nina anche se non vivono insieme ed è un buon padre di Ghila. Rafel è apparentemente un carattere debole, è diventato un semplice assistente sociale e non un regista cinematografico come anelava a essere, ma è il luogo in cui le tre donne possono riposare prima di ripartire per le loro battaglie.

La conclusione del suo libro apre uno spiraglio alla speranza: possiamo davvero perdonare chi ci ha fatto del male?
Non so se è sempre possibile. Ma, se guardo indietro alla mia vita, devo riconoscere che sono stato condizionato dal voler tenere vivo il fuoco della vendetta, ed è come se una parte di me fosse rimasta sospesa. La sensazione che provo oggi è che forse non riesco a perdonare, ma ho preso una distanza da questo dolore. Non voglio più dipendere da esso.

La scrittura aiuta in questo?
L’arte, e quindi anche la scrittura, è sentirsi simultaneamente parte sia del nulla, di tutto quello che non conosciamo, il vuoto e il baratro che attende ciascuno di noi rappresentato dalla morte, e, al tempo, stesso della vita nella sua pienezza. Io, che non sono credente in senso religioso, nell’arte credo fortemente.

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David Grossman sul suo nuovo romanzo e il potere della parola

L’ultimo libro dell'autore israeliano, La vita gioca con me, è una genealogia della colpa: dietro a un male presente ce n’è sempre uno passato, ferite e cicatrici rimosse dalla propria consapevolezza. Ma non è sempre il perdono a interrompere la catena dell’odio.

Vale anche per i personaggi di David Grossman quello che Nietzsche sosteneva nella sua introduzione alla Genealogia della morale: «Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere, un bel giorno, di trovarsi?».

L’ultimo romanzo di Grossman, La vita gioca con me (Mondadori, pagg. 300, euro 21) nella efficace traduzione di Alessandra Shmoroni, è una genealogia della «colpa», più che della morale: dietro a un male presente ce n’è sempre uno passato, nodi che non si sono ancora sciolti, ferite e cicatrici rimosse dalla propria consapevolezza. E questo male, Grossman lo sa molto bene avendo vissuto quasi dagli inizi l’epopea del neo-Stato ebraico, si trasmette di generazione in generazione, fino a che non si arriva, talvolta, alla possibilità di un chiarimento. Ed ecco, allora, il corto circuito improvviso che scatena a terra la forza distruttrice del passato e ricrea nuovi spazi per la libertà e l’amore. Non sempre per il perdono, ma quello che possiamo fare è interrompere la catena dell’odio e riprendere in mano le nostre vite. Può sembrare poco, ma è già tantissimo.

L’ultimo romanzo di Grossman, a differenza dei precedenti, è costruito su una storia reale, quella di Eva Nahir-Panic, un’ebrea-croata trasferitasi in Israele dopo la morte del marito, ufficiale serbo. Dal punto di vista narrativo il romanzo ha una struttura a più livelli che intreccia microcosmo e macrocosmo, vita privata e frammenti di storia del Novecento, in un continuo elastico tra presente, passato e perfino futuro. Ci sono tre donne di generazioni successive che si incontrano in un kibbutz in Israele per la festa di compleanno della più anziana, Vera, che festeggia novant’anni con la figlia Nina, la nipote Ghili, che è anche l’io narrante del libro, e il figliastro e padre di Ghili, Rafael. Tre donne segnate dalla perdita devastante di un amore.

Quando il marito di Vera, Miloš Novak, muore suicida in Croazia per sfuggire alle torture della polizia di Tito, Vera rifiuta di infangarne la memoria e per questo viene condannata alla prigionia nel terribile campo di rieducazione di Goli Otok, una piccola isola selvaggia di fronte a Zara convertita a luogo di prigionia per dissidenti politici e criminali comuni. Ma la decisione di Vera ha un prezzo: l’abbandono al suo destino della figlia di sei anni e mezzo. Ecco il secondo amore infranto. Nina vivrà l’allontanamento dalla madre come un rifiuto e inizierà una vita infelice e raminga, incapace di costruire relazioni solide, neppure con il marito Rafael che continuerà ad amarla devotamente nelle sue fughe dalla famiglia e da Israele. Così, anche Ghili, la figlia di Nina, vive la stessa esperienza di dolore e abbandono, i medesimi rancori riversati sulla madre, generazione dopo generazione. Quando avviene l’incontro per il compleanno di Vera, il «quadrilatero degli affetti» sembra ritrovare una sua geometria, o almeno un tentativo di realizzarla. Ma la ricomposizione richiede un’ulteriore catarsi, un pellegrinaggio dei quattro personaggi nel passato di Vera in Croazia, fino al campo di Goli Otok.

Nel raccontare si riscopre la verità o, almeno, una parte di essa, finalmente condivisa e capace di guarire la memoria

Il pretesto narrativo è il documentario che Ghili propone di girare sulla storia della nonna, un modo per provare a rileggere il passato da un altro punto di vista, con la mediazione dell’obiettivo di una telecamera, come se le ferite, così profonde, rendessero impossibile alle tre donne raccontare il proprio destino direttamente alle altre. E, a Goli Otok, la genealogia della colpa si risolve finalmente nella catarsi, con le tre protagoniste che riemergono dolorosamente dal proprio passato con la prospettiva di una riconciliazione di nuovo possibile. Alla fine, la telecamera e il documentario famigliare diventano inutili, la parola, che per Grossman, come tutti gli ebrei, ha echi ben più profondi di quelli comuni, compie il miracolo: nel raccontare si riscopre la verità o, almeno, una parte di essa, finalmente condivisa e capace di guarire la memoria. Lettera43 ha incontrato lo scrittore israeliano in Italia per la presentazione del libro.

David Grossman (foto di Roberto Monaldo/LaPresse).

DOMANDA. Sono la parola, il racconto che guariscono dall’odio. Nel caso dell’ebraico è una “parola” che ha radici antichissime: quanto pesa questa eredità su uno scrittore?
RISPOSTA. C’è certamente un peso nella lingua ebraica: ha 4 mila anni di storia. È la lingua del ricordo, dell’identità nazionale che è costitutiva dell’universo mentale dei parlanti ebraico. Ma ha anche molti strati: il Talmud, la lingua medievale, quella attuale, di cui l’io narrante Ghili è espressione. Questo non lo vedo come un fardello, ma come un privilegio, perché nella mia scrittura c’è l’eco di tutto questo passato.
 
Questo è un libro sulla memoria, quella del passato che aiuta le tre donne a trovare una riconciliazione, e quella che andrà a perdersi nella mente di Nina, afflitta demenza senile.
È vero, questo è un libro sulla memoria: dolorosa, ma allo stesso tempo piena di freschezza, di verità. La memoria costa moltissimo sforzo, perché ti richiede di ricordare tutto in modo esatto, individuando il momento in cui sei diventato dipendente dal ricordo e come questo ti ha cambiato la vita. Ci sono popoli e persone che diventano prigionieri della memoria. Scelgono di aggrapparsi a essa e non vogliono muoversi su nuovi territori dove sarebbero molto più liberi di guardare al futuro. Soffrono dalla loro infanzia e questi sentimenti di dolore se li portano come un fardello per tutta la vita. Solo facendo posto a qualcosa d’altro possiamo riprendere a muoverci senza essere influenzati dal passato, ritornando a respirare a pieni polmoni. In questo modo possiamo riporre il dolore al suo posto, gli assegniamo un confine.

Le donne, tra cui l’io narrante, sono le protagoniste del racconto. Com’è possibile per uno scrittore identificarsi completamente nell’animo femminile?
Ho voluto scrivere questo romanzo come se non sapessi di essere io a scriverlo. Volevo capire innanzittutto chi erano queste tre donne. Ci sono tanti modi di essere donna, tanti quanto sono le donne al mondo. Non è un processo facile perché la tua anima ha una comfort zone da cui non vuole uscire. Il personaggio principale di A un cerbiatto somiglia il mio amore è Ora (in ebraico luce), una donna, appunto. Non riuscivo a impersonarlo pienamente, era come se io stessi mettendo delle parole che mancavano di un filamento. Quindi, preso dallo sconforto le scrissi una lettera: perché non ti arrendi a me, perché non ti lasci capire? Dopo compresi che non era Ora a doversi arrendere a me, ma io a lei. Solo dopo aver superato questi meccanismi di difesa ed essermi completamente esposto ho capito che cosa Ora rappresentava per me e per il romanzo.

Il mio è un libro su sulle tempeste che stravolgono una famiglia: è come se avessi riportato alla luce l’infrastruttura dell’essere

In questo caso non si è trattato solo di costruire un personaggio femminile, ma di mettere in scena una relazione molto problematica tra tre donne forti e complesse.
Nel libro c’è un forte conflitto tra di loro, si vede come sono vicine e poi si allontanano. Ma, se ci pensiamo, solo nelle famiglie troviamo questo dramma dell’essere vicini e dell’allontanarsi. È come una danza la cui intensità si sviluppa dentro ogni famiglia ed è determinata dagli eventi più o meno difficili che vi avvengono. Il mio è un libro su sulle tempeste che stravolgono una famiglia: è come se avessi riportato alla luce l’infrastruttura dell’essere.

Perche il narratore è Ghili, la donna più giovane delle tre?
Io volevo che fosse una delle tre donne a essere il narratore del romanzo, ma non poteva essere Vera troppo suscettibile di essere caricaturizzata per il forte accento della sua lingua croata d’origine. Nina, poi, è così lontana dagli altri, chiusa in sé stessa, non poteva essere la storyteller. Ghili m’ispirava un’aria di maggiore leggerezza, non era vittima dello scontro tremendo tra madre e figlia. E poi è ironica e mi permetteva di usare un ebraico più moderno.

C’è un unico protagonista maschio, Rafael, non certamente il punto forte del quadrilatero.
Rafael è dipendente dalle tre donne, ma serve a rendere stabile il rapporto tra di loro: è figlio di Vera anche se non biologico, è marito di Nina anche se non vivono insieme ed è un buon padre di Ghila. Rafel è apparentemente un carattere debole, è diventato un semplice assistente sociale e non un regista cinematografico come anelava a essere, ma è il luogo in cui le tre donne possono riposare prima di ripartire per le loro battaglie.

La conclusione del suo libro apre uno spiraglio alla speranza: possiamo davvero perdonare chi ci ha fatto del male?
Non so se è sempre possibile. Ma, se guardo indietro alla mia vita, devo riconoscere che sono stato condizionato dal voler tenere vivo il fuoco della vendetta, ed è come se una parte di me fosse rimasta sospesa. La sensazione che provo oggi è che forse non riesco a perdonare, ma ho preso una distanza da questo dolore. Non voglio più dipendere da esso.

La scrittura aiuta in questo?
L’arte, e quindi anche la scrittura, è sentirsi simultaneamente parte sia del nulla, di tutto quello che non conosciamo, il vuoto e il baratro che attende ciascuno di noi rappresentato dalla morte, e, al tempo, stesso della vita nella sua pienezza. Io, che non sono credente in senso religioso, nell’arte credo fortemente.

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David Grossman sul suo nuovo romanzo e il potere della parola

L’ultimo libro dell'autore israeliano, La vita gioca con me, è una genealogia della colpa: dietro a un male presente ce n’è sempre uno passato, ferite e cicatrici rimosse dalla propria consapevolezza. Ma non è sempre il perdono a interrompere la catena dell’odio.

Vale anche per i personaggi di David Grossman quello che Nietzsche sosteneva nella sua introduzione alla Genealogia della morale: «Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere, un bel giorno, di trovarsi?».

L’ultimo romanzo di Grossman, La vita gioca con me (Mondadori, pagg. 300, euro 21) nella efficace traduzione di Alessandra Shmoroni, è una genealogia della «colpa», più che della morale: dietro a un male presente ce n’è sempre uno passato, nodi che non si sono ancora sciolti, ferite e cicatrici rimosse dalla propria consapevolezza. E questo male, Grossman lo sa molto bene avendo vissuto quasi dagli inizi l’epopea del neo-Stato ebraico, si trasmette di generazione in generazione, fino a che non si arriva, talvolta, alla possibilità di un chiarimento. Ed ecco, allora, il corto circuito improvviso che scatena a terra la forza distruttrice del passato e ricrea nuovi spazi per la libertà e l’amore. Non sempre per il perdono, ma quello che possiamo fare è interrompere la catena dell’odio e riprendere in mano le nostre vite. Può sembrare poco, ma è già tantissimo.

L’ultimo romanzo di Grossman, a differenza dei precedenti, è costruito su una storia reale, quella di Eva Nahir-Panic, un’ebrea-croata trasferitasi in Israele dopo la morte del marito, ufficiale serbo. Dal punto di vista narrativo il romanzo ha una struttura a più livelli che intreccia microcosmo e macrocosmo, vita privata e frammenti di storia del Novecento, in un continuo elastico tra presente, passato e perfino futuro. Ci sono tre donne di generazioni successive che si incontrano in un kibbutz in Israele per la festa di compleanno della più anziana, Vera, che festeggia novant’anni con la figlia Nina, la nipote Ghili, che è anche l’io narrante del libro, e il figliastro e padre di Ghili, Rafael. Tre donne segnate dalla perdita devastante di un amore.

Quando il marito di Vera, Miloš Novak, muore suicida in Croazia per sfuggire alle torture della polizia di Tito, Vera rifiuta di infangarne la memoria e per questo viene condannata alla prigionia nel terribile campo di rieducazione di Goli Otok, una piccola isola selvaggia di fronte a Zara convertita a luogo di prigionia per dissidenti politici e criminali comuni. Ma la decisione di Vera ha un prezzo: l’abbandono al suo destino della figlia di sei anni e mezzo. Ecco il secondo amore infranto. Nina vivrà l’allontanamento dalla madre come un rifiuto e inizierà una vita infelice e raminga, incapace di costruire relazioni solide, neppure con il marito Rafael che continuerà ad amarla devotamente nelle sue fughe dalla famiglia e da Israele. Così, anche Ghili, la figlia di Nina, vive la stessa esperienza di dolore e abbandono, i medesimi rancori riversati sulla madre, generazione dopo generazione. Quando avviene l’incontro per il compleanno di Vera, il «quadrilatero degli affetti» sembra ritrovare una sua geometria, o almeno un tentativo di realizzarla. Ma la ricomposizione richiede un’ulteriore catarsi, un pellegrinaggio dei quattro personaggi nel passato di Vera in Croazia, fino al campo di Goli Otok.

Nel raccontare si riscopre la verità o, almeno, una parte di essa, finalmente condivisa e capace di guarire la memoria

Il pretesto narrativo è il documentario che Ghili propone di girare sulla storia della nonna, un modo per provare a rileggere il passato da un altro punto di vista, con la mediazione dell’obiettivo di una telecamera, come se le ferite, così profonde, rendessero impossibile alle tre donne raccontare il proprio destino direttamente alle altre. E, a Goli Otok, la genealogia della colpa si risolve finalmente nella catarsi, con le tre protagoniste che riemergono dolorosamente dal proprio passato con la prospettiva di una riconciliazione di nuovo possibile. Alla fine, la telecamera e il documentario famigliare diventano inutili, la parola, che per Grossman, come tutti gli ebrei, ha echi ben più profondi di quelli comuni, compie il miracolo: nel raccontare si riscopre la verità o, almeno, una parte di essa, finalmente condivisa e capace di guarire la memoria. Lettera43 ha incontrato lo scrittore israeliano in Italia per la presentazione del libro.

David Grossman (foto di Roberto Monaldo/LaPresse).

DOMANDA. Sono la parola, il racconto che guariscono dall’odio. Nel caso dell’ebraico è una “parola” che ha radici antichissime: quanto pesa questa eredità su uno scrittore?
RISPOSTA. C’è certamente un peso nella lingua ebraica: ha 4 mila anni di storia. È la lingua del ricordo, dell’identità nazionale che è costitutiva dell’universo mentale dei parlanti ebraico. Ma ha anche molti strati: il Talmud, la lingua medievale, quella attuale, di cui l’io narrante Ghili è espressione. Questo non lo vedo come un fardello, ma come un privilegio, perché nella mia scrittura c’è l’eco di tutto questo passato.
 
Questo è un libro sulla memoria, quella del passato che aiuta le tre donne a trovare una riconciliazione, e quella che andrà a perdersi nella mente di Nina, afflitta demenza senile.
È vero, questo è un libro sulla memoria: dolorosa, ma allo stesso tempo piena di freschezza, di verità. La memoria costa moltissimo sforzo, perché ti richiede di ricordare tutto in modo esatto, individuando il momento in cui sei diventato dipendente dal ricordo e come questo ti ha cambiato la vita. Ci sono popoli e persone che diventano prigionieri della memoria. Scelgono di aggrapparsi a essa e non vogliono muoversi su nuovi territori dove sarebbero molto più liberi di guardare al futuro. Soffrono dalla loro infanzia e questi sentimenti di dolore se li portano come un fardello per tutta la vita. Solo facendo posto a qualcosa d’altro possiamo riprendere a muoverci senza essere influenzati dal passato, ritornando a respirare a pieni polmoni. In questo modo possiamo riporre il dolore al suo posto, gli assegniamo un confine.

Le donne, tra cui l’io narrante, sono le protagoniste del racconto. Com’è possibile per uno scrittore identificarsi completamente nell’animo femminile?
Ho voluto scrivere questo romanzo come se non sapessi di essere io a scriverlo. Volevo capire innanzittutto chi erano queste tre donne. Ci sono tanti modi di essere donna, tanti quanto sono le donne al mondo. Non è un processo facile perché la tua anima ha una comfort zone da cui non vuole uscire. Il personaggio principale di A un cerbiatto somiglia il mio amore è Ora (in ebraico luce), una donna, appunto. Non riuscivo a impersonarlo pienamente, era come se io stessi mettendo delle parole che mancavano di un filamento. Quindi, preso dallo sconforto le scrissi una lettera: perché non ti arrendi a me, perché non ti lasci capire? Dopo compresi che non era Ora a doversi arrendere a me, ma io a lei. Solo dopo aver superato questi meccanismi di difesa ed essermi completamente esposto ho capito che cosa Ora rappresentava per me e per il romanzo.

Il mio è un libro su sulle tempeste che stravolgono una famiglia: è come se avessi riportato alla luce l’infrastruttura dell’essere

In questo caso non si è trattato solo di costruire un personaggio femminile, ma di mettere in scena una relazione molto problematica tra tre donne forti e complesse.
Nel libro c’è un forte conflitto tra di loro, si vede come sono vicine e poi si allontanano. Ma, se ci pensiamo, solo nelle famiglie troviamo questo dramma dell’essere vicini e dell’allontanarsi. È come una danza la cui intensità si sviluppa dentro ogni famiglia ed è determinata dagli eventi più o meno difficili che vi avvengono. Il mio è un libro su sulle tempeste che stravolgono una famiglia: è come se avessi riportato alla luce l’infrastruttura dell’essere.

Perche il narratore è Ghili, la donna più giovane delle tre?
Io volevo che fosse una delle tre donne a essere il narratore del romanzo, ma non poteva essere Vera troppo suscettibile di essere caricaturizzata per il forte accento della sua lingua croata d’origine. Nina, poi, è così lontana dagli altri, chiusa in sé stessa, non poteva essere la storyteller. Ghili m’ispirava un’aria di maggiore leggerezza, non era vittima dello scontro tremendo tra madre e figlia. E poi è ironica e mi permetteva di usare un ebraico più moderno.

C’è un unico protagonista maschio, Rafael, non certamente il punto forte del quadrilatero.
Rafael è dipendente dalle tre donne, ma serve a rendere stabile il rapporto tra di loro: è figlio di Vera anche se non biologico, è marito di Nina anche se non vivono insieme ed è un buon padre di Ghila. Rafel è apparentemente un carattere debole, è diventato un semplice assistente sociale e non un regista cinematografico come anelava a essere, ma è il luogo in cui le tre donne possono riposare prima di ripartire per le loro battaglie.

La conclusione del suo libro apre uno spiraglio alla speranza: possiamo davvero perdonare chi ci ha fatto del male?
Non so se è sempre possibile. Ma, se guardo indietro alla mia vita, devo riconoscere che sono stato condizionato dal voler tenere vivo il fuoco della vendetta, ed è come se una parte di me fosse rimasta sospesa. La sensazione che provo oggi è che forse non riesco a perdonare, ma ho preso una distanza da questo dolore. Non voglio più dipendere da esso.

La scrittura aiuta in questo?
L’arte, e quindi anche la scrittura, è sentirsi simultaneamente parte sia del nulla, di tutto quello che non conosciamo, il vuoto e il baratro che attende ciascuno di noi rappresentato dalla morte, e, al tempo, stesso della vita nella sua pienezza. Io, che non sono credente in senso religioso, nell’arte credo fortemente.

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Come è andato il 2019 per la narrativa italiana

Da Veronesi alla Starnone, passando per Tuena, Zaccuri fino a Tokarczuk e Franzobel: quali sono gli autori salvati dai critici letterari. Che denunciano: sono venute meno le gerarchie basate sulla qualità. Oramai è il mercato che stabilisce, con i suoi numeri di vendita, i valori di un'opera.

Che anno è stato il 2019 per la narrativa italiana? Di continuità, di rottura? Certamente, un solo anno non può determinare una «tendenza», caso mai confermare o contraddire degli orientamenti emersi nel tempo. Ma qualche novità c’è sempre, e forse conviene partire dalle discontinuità. Guardando ai numeri, sulla base dell’ultimo rapporto Nielsen realizzato per conto dell’Aie (Associazione Italiana Editori), il mercato editoriale ha registrato nei primi 11 mesi del 2019 quota 1,131 miliardi di euro (+3,7% sullo stesso periodo dell’anno precedente), con una crescita – erano molti anni che non accadeva – anche del numero di copie, +2,3%, con 77,4 milioni di nuovi libri (cartacei) venduti. A pesare di più, dopo la manualistica, sono la fiction straniera (18,4%), la saggistica (17,3%) e al quarto posto bambini e ragazzi (16,3%).

Per quanto riguarda temi e contenuti – gli orientamenti di cui si diceva all’inizio – novità interessanti ci sono state. Alessandro Zaccuri, scrittore e giornalista culturale, fa una riflessione sul mondo dei bestseller. «Penso che sia un anno di avvicendamento», dice a Lettera43, «con la morte di Andrea Camilleri si conclude una stagione irripetibile, che aveva portato alla luce un lettore disponibile a confrontarsi con un linguaggio meno accessibile e più laborioso rispetto alla media dei romanzi italiani». A raccogliere il testimone di Camilleri è stata un’altra autrice siciliana, Stefania Auci: «con I leoni di Sicilia», prosegue Zaccuri, «è tornata a suscitare interesse per il romanzo di impianto più tradizionale, quasi ottocentesco nella sua struttura».

Romanzi con una forte vocazione narrativa, tradizionali, di pura fiction, come quelli che hanno visto la luce nello scorcio finale dell’anno: Il colibrì di Sandro Veronesi, La vita bugiarda degli adulti di Elena Ferrante e Confidenza di Domenico Starnone. «Passiamo dal nuovo libro della Ferrante, semplice, ma non banale» osserva Gianluigi Simonetti, professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università dell’Aquila, «all’ultimo di Veronesi, più complicato nella struttura e nel montaggio, con un passaggio a vuoto, a parer mio, nel finale, troppo obbediente al dover essere dell’impegno civile». E poi c’è il libro di Starnone», spiega Simonetti, «che conclude brillantemente una trilogia di romanzi brevi di grande artigianato narrativo e di notevole cattiveria psicologica». 

RESISTE UN FILONE DI LETTERATURA CHE MESCOLA GENERI E FORME NARRATIVE

Sull’altro fronte, persiste una letteratura debole, che esplora terreni meno praticati e cerca vie nuove, mescolando generi e forme narrative. Una letteratura «ibrida» che si colloca al crocevia fra romanzo, autobiografia e biografia, saggio personalediario intimo, taccuino di viaggio. «In questo,» prosegue Simonetti «Emanuele Trevi, con Sogni e favole, si conferma il più bravo – con Franchini, che però tace da un po’. È una letteratura a volte anche elegante e profonda, ma sempre volutamente ‘minore’, disposta a rinunciare alle grandi strutture del romanzo per muoversi con maggior libertà e leggerezza all’incrocio fra diverse scritture».

Non sono mancati libri singolari: penso a Necropolis di Giordano Tedoldi, a Lo stradone di Francesco Pecoraro, alla raccolta dei romanzi di Carlo Bordini

Gianluigi Simonetti, professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università dell’Aquila

Una tendenza che non sempre porta risultati eccellenti e che talvolta può diventare una scorciatoia, a seconda della qualità intellettuali degli interpreti. E poi, nel 2019, vi sono stati libri nei quali la ricerca di nuove forme espressive è risultata ancora più marcata. «È vero, non sono mancati libri singolari», conclude Simonetti, «che fanno storia a sé, fuori da qualsiasi tendenza e preoccupazione seduttiva: penso a Necropolis di Giordano Tedoldi, a Lo stradone di Francesco Pecoraro, alla raccolta dei romanzi di Carlo Bordini».

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Che il 2019 abbia confermato la salute di un filone narrativo attratto dalle ibridazioni lo pensa anche un protagonista e osservatore attento del nostro panorama letterario come lo scrittore Andrea Tarabbia, che nel 2019 ha pubblicato Madrigale senza suono con il quale ha vinto il premio Campiello. «Mi sono piaciute molte cose ibride: in Italia Le galanti di Filippo Tuena – un autore che considero tra i miei maestri – e Nel nome di Alessandro Zaccuri». Tarabbia segnala anche I vagabondi di Olga Tokarczuk «un libro che lascia insoddisfatti, ma in cui si vede un’idea forte e originale di letteratura. E poi vorrei segnalare un romanzo puro, La zattera della Medusa di Franzobel, un’opera per me straordinaria, e un saggio anch’esso puro: Dialettica del mostro di Sylvain Piron».

LA CRITICA MILITANTE NON CONTA PIÙ

E per quanto riguarda il pubblico? Come si pone questa narrativa d’autore rispetto a lettori che consumano prodotti editoriali da media diversi, con la crescita di servizi come Audible, che consentono l’ascolto di libri appena pubblicati in libreria, e che si informano non solo sulle pagine culturali dei quotidiani, ma nel mondo variegato dei blog, dei gruppi di Facebook, dei siti di recensioni online? «La parola chiave mi sembra “confusione”: tutto equivale a tutto e l’indistinzione è la caratteristica del nostro tempo», osserva Paolo Di Stefano, scrittore e giornalista culturale. «La critica militante è tramontata e quando c’è rimane una voce nel deserto, senza ascolto. Ciò che fa testo sono le classifiche visibilmente dilatate sui giornali».

Sembrano venute meno le gerarchie basate sulla qualità: è il mercato che stabilisce, con i suoi numeri di vendita, i valori

Paolo Di Stefano

È esemplare al riguardo quella basata sulle preferenze dei lettori pubblicata sul supplemento culturale La lettura del Corriere della sera che accosta nelle prime 10 posizioni autori complessi, esponenti di una letteratura cosiddetta «forte», con nomi di successo più commerciali. «Sembrano venute meno le gerarchie basate sulla qualità: è il mercato che stabilisce, con i suoi numeri di vendita, i valori. Un libro di Fabio Volo, con tutto il rispetto, naturalmente, è messo sullo stesso piano dell’ultimo romanzo di Ian Russell McEwan». Per Di Stefano i giornali hanno abolito la delega di una responsabilità critica, «distribuendo le recensioni in modo indiscriminato, venendo meno al compito di scegliere e indirizzare, che oggi sarebbe più urgente che in passato proprio per ridare una “personalità” alla stampa rispetto alla rete».      

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